DELLA VENDITA DI IVECO E DI ALTRE STORIE. NO A TORINO CITTÀ DELLA MORTE!

Torino -

La vendita di Iveco a Tata Motors è l'ennesimo tassello di un processo di svendita dell'industria torinese che lascia nuovamente nell'incertezza totale del proprio futuro migliaia di lavoratori e lavoratrici, con conseguenze che ricadranno anche sull'indotto.

Questo smantellamento non è frutto del caso: è stato perseguito a livello nazionale da tutti i governi, di destra e centro-sinistra, in perfetta continuità e in nome della compatibilità e delle regole del progetto dell’Unione Europea, che hanno imposto di ridurre il ruolo dello Stato nell’economia, vietato nazionalizzazioni e la definizione di un concreto progetto di rilancio industriale nazionale, spingendo a privatizzare e liberalizzare ogni settore. Le conseguenze sono tangibili: aziende strategiche svendute, filiere industriali smontate, territori impoveriti.

Dopo la fase della città-fabbrica, Torino è oggi diventata la città con il maggior numero di lavoratori in cassa integrazione d’Italia, un dato che fotografa l’emergenza sociale e produttiva di un territorio ormai al collasso e la miopia di una classe dirigente stracciona.

Per anni tutta la classe politica ci ha ripetuto che la soluzione fosse puntare sui grandi eventi e sul comparto turistico-culturale. In questi giorni persino due figure simbolo dell’industria torinese – l’ex presidente della Camera di Commercio Dario Gallina e l’ex ad Iveco Giorgio Garuzzo – hanno ammesso apertamente che il turismo non può sostituire la produzione e assorbirne la forza lavoro, per i motivi che noi denunciamo da anni.

E hanno ragione, almeno su questo: il turismo e la cultura sono settori strutturalmente basati su condizioni di estrema precarietà, sul lavoro grigio, nero e da salari da fame fissati dai ccnl più poveri firmati da CGIL, CISL e UIL. I numeri lo confermano: in Piemonte l'economia del caffè non arriva al 10% del PIL regionale. Anche ai massimi storici, questo comparto è troppo piccolo per sostituire la manifattura.

Di fronte al fallimento di questa favola, ecco che la nuova nuova “vocazione” per Torino e per il Paese , su cui tutti sono d'accordo dal governo Meloni alla finta opposizione, diventa la produzione militare per il riarmo o la "difesa" europea.

Il comparto bellico viene presentato come occasione di rilancio produttivo, e non a caso si esulta per la vendita del ramo militare di Iveco a Leonardo, una delle piú grandi fabbriche di armamenti a livello europeo, finanziata con soldi pubblici e coinvolta nel genocidio del popolo palestinese.

Una strategia che riteniamo inaccettabile perché Torino non può e non deve diventare una città della morte. Non c'è lavoro dignitoso nel preparare massacri: è un' economia che vive del sangue altrui e muore con la pace.

Ma è anche una strategia a doppio vicolo cieco: per quanto venga sostenuta da una narrazione che pone sul tavolo il ricatto occupazionale, le produzioni belliche sono ad alta automazione e richiedono poca manodopera, lasciando irrisolto il problema dell'occupazione. Insomma, mentono sapendo di mentire.

Il futuro dei lavoratori e delle lavoratrici di questa città e del Paese non può dipendere dai tavolini dei bar o dai cannoni. Serve un piano industriale pubblico e nazionale, capace di rilanciare produzioni utili, ecologiche e socialmente necessarie per i bisogni della collettività.

USB sarà in prima linea per difendere il lavoro e il futuro di Torino, contro la svendita dell’industria e contro la trasformazione della città in una vetrina turistica di precarietà o in un arsenale per le guerre altrui.